Riconoscimento del diritto a percepire l’assegno sociale: illegittimi i provvedimenti di rigetto dell’INPS che ritengono non soddisfatto il requisito della stabile residenza in Italia per assenze superiori ai 90 giorni, desunte dai timbri sui passaporti nel corso dell’ultimo decennio – Avv. Ilda Beqo.

Il Tribunale di Modena – Sez. Lavoro, Giudice, dott. Vincenzo Conte con 5 sentenze pubblicate in data 02.02.2023 (sent.  N . 491/2022; sent. 492/2022; sent. 493/2022 sent. 494/2022 e sent. 495/2022), ha accolto integralmente 5 ricorsi patrocinati dall’avv. Ilda Beqo statuendo il riconoscimento del diritto a percepire l’assegno sociale in capo ai ricorrenti, ritenendo illegittimi i rigetti dell’INPS che aveva ritenuto non soddisfatto il requisito della stabile residenza in Italia degli stessi per assenze superiori ai  90 giorni, desunte dai timbri sui loro passaporti nel corso dell’ultimo decennio.

In particolare, si tratta della dibattuta questione del requisito del soggiorno continuativo almeno decennale in Italia dei richiedenti previsto dall’art. 20, comma 10 D.L. n. 112/2008, requisito la cui prova è a carico dei ricorrenti, che nei casi in questione hanno pienamente assolto all’onere probatorio.

Il Giudice del Lavoro, accogliendo integralmente le ragioni della difesa dei ricorrenti ha precisato che non può attribuirsi alcuna rilevanza alle circolari INPS – da cui parte resistente fa discendere l’interruzione della continuità del soggiorno qualora il richiedente trascorra più di 90 giorni all’estero – posto che le circolari emanate dalla pubblica amministrazione non costituiscono fonte del diritto, sono atti di rilevanza interna e come tali privi di efficacia vincolante. Le circolari non spiegano alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all’amministrazione, essendo destinate ad esercitare esclusivamente una funzione direttiva da parte dell’organo di vertice che le emette nei confronti degli uffici dipendenti (Cass. S.U. n. 23031/2007). Come chiarito dai giudici amministrativi, “le circolari interpretative hanno efficacia interna, non costituiscono fonti del diritto e non vincolano il giudice il quale le può sempre disapplicare se ritenute non conformi alle norme” (cfr. T.A.R. Milano, 29/10/2015, n. 2292).

Le sentenze in questione sono importanti in quanto, a seconda delle particolarità dei casi concreti e delle contestazioni dell’INPS, effettuano una disamina completa dell’intera disciplina e delle norme giuridiche in materia, anche con riferimento alla possibilità per i cittadini extracomunitari residenti in Italia di avvalersi della dichiarazione sostitutiva ex artt. 46 o 47, D. Lgs. n. 445/2000 riguardo la non titolarità di redditi o pensione nel Paese di origine per poter accedere alla prestazione assistenziale (cfr. Trib. Brescia n. 167/2016 e Corte di Appello di Milano n. 338/2021).

Si riportano alcuni passaggi importanti.

*In merito al contenuto del requisito previsto dall’art. 20 cit., la giurisprudenza ha statuito che la nozione di soggiorno continuativo almeno decennale in Italia (valido per tutti i soggetti indipendentemente dalla loro cittadinanza: cfr. Corte Cost. 197/2013) ha natura fattuale, distinto dalla mera residenza legale, e che, in relazione all’ampiezza dell’arco temporale di riferimento, la continuità va intesa non quale assoluta, costante e ininterrotta permanenza in Italia, bensì come espressione di un radicamento sul territorio nazionale, come tale compatibile anche con allontanamenti temporanei o di breve durata (cfr. Cass. n. 16865/2020, Cass. n. 16989/2019, Cass. n. 16867/2019). 

Secondo la giurisprudenza di legittimità, “ai fini del riconoscimento dell’assegno sociale, l’equiparazione tra cittadini italiani residenti in Italia e stranieri titolari di carta o di permesso di soggiorno, prevista dall’art. 39, comma 1, della l. n. 40 del 1998, non richiede per questi ultimi il requisito della stabile dimora, sicché è irrilevante l’allontanamento temporaneo dello straniero in possesso dei predetti requisiti, in quanto, ove si versi in tema di provvidenza destinata a fare fronte al sostentamento della persona, qualsiasi discrimine fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive violerebbe il principio di non discriminazione posto dall’art. 14 della Convenzione dei diritti dell’uomo” (Cass. n. 17397/2016). 

Il soggiorno legale, per almeno dieci anni, nel territorio nazionale, “si sostanzia in un radicamento territoriale che non si identifica con la assoluta, costante ed ininterrotta permanenza sul territorio nazionale” (Cass. n. 16989/2019). Come ben chiarito dalla giurisprudenza di merito, “il requisito del soggiorno legale, continuativo e decennale richiesto dalla norma sopra riportata sussiste tutte le volte in cui il soggetto straniero interessato alla prestazione abbia un titolo legale per permanere sul territorio nazionale per la durata di dieci anni, rilasciato in un’unica soluzione oppure prorogato per tale periodo senza soluzione di continuità. Ne discende che detto requisito non viene meno, come invece ritenuto dall’INPS, in caso di allontanamenti più o meno lunghi, sempre che permanga il titolo legale che permetta il rientro” (Trib. di Pesaro n. 113/2017).

Cass. n. 15170/2019 ha ribadito l’irrilevanza dell’allontanamento temporaneo dal territorio italiano: “Ne consegue che non essendo in discussione la residenza, ma venendo in rilievo solo un mero allontanamento temporaneo, sussiste il diritto della assistita alla prestazione anche per il periodo in cui si è volontariamente allontanata dal luogo di dimora abituale. Occorre, infatti, ricordare che la residenza è determinata dalla abituale volontaria dimora di una persona in un dato luogo, sicché concorrono ad instaurare tale relazione giuridicamente rilevante sia il fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo, sia l’elemento soggettivo della volontà di rimanervi, la quale estrinsecandosi in fatti univoci evidenzianti tale intenzione, è normalmente compenetrata nel primo elemento (Cass., 5 febbraio 1985, numero 791; Cass., 14 marzo 1986, n. 1738, secondo la quale questa stabile permanenza sussiste anche in caso di temporaneo allontanamento sempre che la persona vi ritorni quando possibile e vi mantenga il centro delle proprie relazioni familiari e sociali”(Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 02/04/2019) 05/07/2019, n. 18189).”

Risulta per tabulas che il ricorrente  si è allontanato dal territorio nazionale, fra il 2020 e il 2021, per far ritorno nel Paese di origine, nel quale si è trattenuto in ciascuna occasione per un tempo apprezzabile. Dal passaporto si ricava che il ricorrente si è trattenuto in Albania per quattro/cinque mesi negli anni 2020 e 2021: dal 22.07.2020 al 13.11.2020 e dal 05.06.2021 al 27.11.2021. 

Tali allontanamenti temporanei, ancorché superiori ai novanta giorni, non sono ostativi al riconoscimento dell’assegno sociale. Si tratta di assenze che non hanno assunto carattere di continuità, essendo state intervallate dalla permanenza in Italia per un numero significativo di mesi, superiore a quello trascorso in Albania. Il ricorrente ha sempre fatto ritorno in Italia, dove si è stabilito dal 2008, per ricongiungersi con i familiari, che qui vivono (cfr. documenti d’identità dei familiari conviventi ), divenendo formalmente residente nel territorio nazionale, tanto da aver acquisito il permesso di soggiorno UE di lungo periodo. La continuità del soggiorno in Italia è corroborata dal collegamento stabile con il territorio italiano e con il nucleo familiare quivi stabilitosi, nonché dalla permanenza in Italia per periodi superiori a quelli trascorsi all’estero e dalla mancata prova del trasferimento nel paese d’origine per lunghi periodi prima del 2020 (dal 2009 al 2019). Appare, dunque, soddisfatto il requisito del soggiorno stabile e continuativo per almeno dieci anni alla data della presentazione della domanda amministrativa.

Non può attribuirsi alcuna rilevanza alle circolari INPS – da cui parte resistente fa discendere l’interruzione della continuità del soggiorno qualora il richiedente trascorra più di 90 giorni all’estero -, posto che le circolari emanate dalla pubblica amministrazione non costituiscono fonte del diritto, sono atti di rilevanza interna e come tali privi di efficacia vincolante. Le circolari non spiegano alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all’amministrazione, essendo destinate ad esercitare esclusivamente una funzione direttiva da parte dell’organo di vertice che le emette nei confronti degli uffici dipendenti (Cass. S.U. n. 23031/2007). Come chiarito dai giudici amministrativi, “le circolari interpretative hanno efficacia interna, non costituiscono fonti del diritto e non vincolano il giudice il quale le può sempre disapplicare se ritenute non conformi alle norme” (cfr. T.A.R. Milano, 29/10/2015, n. 2292).

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Le disposizioni del D.P.R. n. 445/2000, in quanto di natura amministrativa e di rango inferiore rispetto all’art. 2, comma 5, D. Lgs. n. 286/1998 e alla normativa comunitaria, devono essere disapplicate nella parte in cui subordinano la possibilità per i soli cittadini di stati non appartenenti all’Unione europea di utilizzare le dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 limitatamente a stati e fatti certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici italiani a differenza dei cittadini italiani e dell’Unione Europea. Le citate disposizioni si pongono in contrasto con il principio di parità di trattamento sancito dal diritto comunitario. Sia i giudici nazionali sia gli organi amministrativi sono tenuti ad applicare integralmente il diritto dell’Unione e a tutelare i diritti che quest’ultimo conferisce ai singoli, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (cfr. CGUE 22.6.1989, C-103788, CGUE 11.1.2007, C-208/05 e CGUE 14.10.2010, C-243/09). 

Ne consegue che, dovendosi fare applicazione della fonte di rango primario del nostro ordinamento interno in materia di parità di trattamento nei rapporti con la pubblica amministrazione e della normativa comunitaria come sopra citate, il diniego dell’INPS alla concessione dell’assegno sociale in presenza dei requisiti di legge debba ritenersi illegittimo e non giustificato. Ciò non esclude che, in presenza di autodichiarazioni rese ai sensi del T.U. 445/2000 da parte dello straniero con permesso di soggiorno, l’ente possa riconoscere la prestazione in via provvisoria e procedere ai controlli sulla mendicità delle informazioni e dei dati dichiarati, avvalendosi degli organi accertatori interni e interpellando le autorità consolari straniere…”

Assegno sociale al cittadino extracomunitario: gli allontanamenti temporanei non fanno venire meno il requisito del soggiorno legale e continuativo nel territorio nazionale – Avv. Elierta Myftari.

Il Tribunale di Busto Arsizio interviene nuovamente, con un’interessante sentenza, sui requisiti utili ai fini dell’ottenimento dell’assegno sociale (di cui alla legge n. 335/1995) da parte del cittadino extracomunitario.

In particolare, interpreta il requisito del soggiorno legale e continuativo nel territorio nazionale, introdotto dall’art. 20, comma 10, del D.L. n. 112/2008, convertito con modifiche dalla legge n. 133/2008.

Nel caso in questione, l’INPS territoriale rigettava la domanda di assegno sociale avanzata dall’assistita, cittadina albanese con permesso di soggiorno di durata illimitata. L’Istituto, limitandosi ad un mero calcolo matematico, riteneva, in particolare, che gli spostamenti della richiedente, da e verso l’Albania, nei dieci anni precedenti la domanda, fossero sintomo di mancato radicamento della stessa nel territorio nazionale.  

D’altro canto, la difesa ha chiarito come gli allontanamenti dal T.N. non possono, sic et simpliciter, costituire motivo di interruzione del legame che la richiedente aveva costruito con l’Italia nei lunghi anni di residenza.

Il tribunale, sposando a pieno la tesi della difesa della ricorrente, ha stabilito che gli allontanamenti meramente temporanei dall’Italia (anche laddove superassero i 300 giorni), non fanno venire meno il requisito di cui all’art. 20, comma 10, del D.L. n. 112/2008, considerato anche l’arco temporale decennale.

Si legge, infatti, in sentenza che “… va ricordato che il legislatore del 2008, introducendo il requisito della residenza qualificata, ha inteso riconoscere la prestazione assistenziale ai cittadini stranieri che abbiano maturato un legame stabile e duraturo con il nostro Paese, senza tuttavia configurare un ostacolo alla libertà di circolazione, assicurata tanto dall’art. 16 della Costituzione, quanto dagli artt. 21 e 45 del TFUE. In tal senso si è espressa anche la Suprema Corte, secondo cui la continuità della permanenza non implica una violazione della libera scelta del singolo e “si sostanzia in un radicamento territoriale che non si identifica con la assoluta, costante e ininterrotta permanenza sul territorio nazionale” (Cass. n. 16867/2020; cfr. anche Cass. n. 16989/2019)”.

Il Tribunale ha, quindi, riconosciuto il diritto della ricorrente a percepire l’assegno sociale e condannato l’INPS al pagamento della misura stessa a far data dalla richiesta avanzata in sede amministrativa, nonché al pagamento delle spese di lite.

Permesso di soggiorno e convivenza di fatto: Il cittadino extra comunitario ha diritto di vedersi registrare la dichiarazione del contratto di convivenza di fatto ex legge 76/2016 con il cittadino Italiano anche se sprovvisto di permesso di soggiorno in base alla normativa euro comunitaria e nazionale. Tribunale di Brindisi sentenza del 1 agosto 2022 – Causa patrocinata dall’Avv. Arselinda Shoshi in collaborazione con l’Avv. Enrico Tedeschi, entrambi del foro di Sulmona (AQ).

Il caso trae origine dal rifiuto del Comune di Brindisi di rilasciare il certificato di convivenza di fatto ad una cittadina russa poiché scriveva il Comune “La cittadina non risulta iscritta nell’APR ( (anagrafe nazionale della popolazione residente) pertanto deve prima provvedere all’iscrizione presso l’Ufficio immigrazione del Comune di Brindisi e contestualmente potrà fare dichiarazione di convivenza di fatto“.

Il Tribunale ordinario di Brindisi con sentenza del 1 agosto 2022 accoglie il ricorso della ricorrere sul presupposto che” La lettura coordinata della legislazione nazionale, in tema di contratti di convivenza di fatto, con le norme contenute nella direttiva 2004/38/CE recepita in Italia con D.Lgs n. 30/2007, in tema del diritto di libera circolazione e di stabilimento dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, come interpretato dalla corte di Giustizia e dall’art. 8 CEDU, consente di ritenere che la dichiarazione anagrafica prevista dall’art. 1 comma 37 della L. n. 76/2016 non costituisce il presupposto per la costituzione del rapporto di convivenza ma una conseguenza dello stesso.

L’art. 3, paragrafo 2, comma 1, lett. B) della direttiva 2004/38/CE riguarda specificatamente il partner con il quale il cittadino dell’Unione ha una relazione stabile “debitamente attestata” e la disposizione prevede che lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l’ingresso e il soggiorno di tale partner.

Al riguardo, la Corte di Cassazione, aderendo ai principi indicati dalla Corte di Giustizia, ha ritenuto che “al cittadino di paese terzo coniuge di cittadino dell’Unione Europea, può essere rilasciato un titolo di soggiorno per motivi familiari anche quando non sia regolarmente soggiornato nel territorio dello Stato, in quanto alla luce dell’interpretazione vincolante fornita dalla sentenza della Corte di Giustizia n. C-27 del 25 luglio 2008, la Direttiva 2004/38/CE consente a qualsiasi cittadino di paese terzo familiare di un cittadino dell’Unione, ai sensi dell’art.2, punto 2 della predetta Direttiva che accompagni o raggiunga il predetto cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza di ottenere un titolo d’ingresso o soggiorno nello Stato membro ospitante a prescindere dall’aver già soggiornato regolarmente in uno Stato membro, non essendo compatibile con la Direttiva, una normativa interna che imponga la condizione del previo soggiorno regolare in uno Stato membro prima dell’arrivo nello Stato ospitante, al coniuge del cittadino dell’Unione, in considerazione del diritto al rispetto della vita familiare stabilito nell’art8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”.

Deve dunque affermarsi in conformità a quanto stabilito dall’art.8 CEDU e della direttiva 2004/38/CE ( laddove prevede che lo Stato membro ospitante agevoli l’ingresso e il soggiorno del partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata), la sussistenza del diritto per il partner extracomunitario di cittadino residente in un Comune italiano di ottenere un riconoscimento della situazione di fatto validamente accertata mediante l’iscrizione nel registro della popolazione residente di detto Comune e nello stato di famiglia del convivente, pur in assenza di permesso di soggiorno.

Diniego del visto per ricongiungimento familiare: l’Ambasciata italiana in Pakistan viola il diritto soggettivo del richiedente. Tribunale di Roma, ordinanza del 24 febbraio 2022 – Avv. Elena Vengu.

Accolto ricorso avverso il diniego dell’Ambasciata d’Italia di Islamabad al rilascio del visto per ricongiungimento familiare. Rigetto emesso a causa di una presunta contraffazione dell’atto di nascita del richiedente.

Il cittadino del Pakistan, titolare di permesso di soggiorno UE di lungo periodo, aveva impugnato il provvedimento di diniego del visto di ingresso per ricongiungimento familiare emesso dall’Ambasciata d’Italia di Islamabad.

Tale diniego si basava esclusivamente sulla presunta contraffazione dell’atto di nascita del familiare da ricongiungere. Solo nel corso del giudizio, l’Ambasciata evidenziava l’esistenza di una discrepanza tra la data di nascita dichiarata dal ricorrente e la data di nascita riportata nei registri dello Stato civile.

Nella prima fase di richiesta del ricongiungimento familiare, il ricorrente aveva regolarmente domandato ed ottenuto il nulla osta da parte dello Sportello Unico per l’Immigrazione presso la Prefettura, la quale aveva verificato i requisiti oggettivi per il rilascio del nulla osta quali titolo di soggiorno, reddito, alloggio e assenza di circostanze ostative di Pubblica Sicurezza. Tuttavia, nella seconda fase, l’Ambasciata ha negato il visto dopo aver verificato i requisiti soggettivi necessari per il relativo rilascio. Non erano posti in contestazione né il rapporto di filiazione né di coniugio ma esclusivamente la genuinità dell’atto di nascita.

L’Ambasciata, tuttavia, non aveva fondati motivi per ritenere che la data di nascita apposta su tutti i documenti presentati dal ricorrente, fosse diversa da quella dichiarata dallo stesso. Il diniego rilasciato tra l’altro senza preavviso di rigetto ex art. 10 bis L. n 241/90, era fondato esclusivamente sul rilascio di dichiarazioni generiche degli impiegati dello Stato civile del Comitato Municipale.

Inoltre, il cittadino pakistano ha allegato nel corso del giudizio la sentenza di correzione della data di nascita emessa dal Tribunale pakistano, debitamente tradotta, insieme a carta d’identità e passaporto, i quali riportavano la data di nascita dallo stesso dichiarata. Risultano, pertanto, irrilevanti le dichiarazioni generiche di errore materiale della data di nascita rilasciate dalle autorità pakistane dello Stato civile.
Risultava, altresì, che l’Ambasciata non avesse consultato le banche dati che fanno capo al Ministero dell’Interno. Veniva quindi accolto il ricorso, in quanto il Tribunale ha accertato la violazione del diritto soggettivo del ricorrente a ricongiungersi con la propria famiglia.